LE VICENDE DEL GOVERNO DRAGHI E LE INVOLUZIONI DELLA CULTURA ISTITUZIONALE E POLITICA TRA I CITTADINI
Le vicende politiche connesse con la caduta del Governo Draghi, ci sollecitano ad alcune riflessioni circa l’evoluzione, non necessariamente positiva, della cultura istituzionale nel nostro Paese. Una evoluzione che influisce anche sul mutamento della Costituzione materiale verso una forma peculiare di presidenzialismo sconosciuta all’impianto originale della Costituzione.
Per la seconda volta nella nostra storia recente, è stato invertito il processo di scelta del Governo della Repubblica. Il modello costituzionale vigente è basato sulla rilevanza assoluta del sistema partitico e quindi elettorale. Qualunque sia la legge elettorale vigente, dalle elezioni è prevista l’emersione di una maggioranza politica. Tale espressione teorica significa, concretamente, che gli elettori eleggono deputati e senatori appartenenti ciascuno ad un determinato partito e, nel Parlamento così composto, sono individuabili combinazioni di aggregazioni di votanti tali da raggiungere la metà più uno dei voti. La maggioranza che esprime la fiducia al Governo e, nel futuro, sosterrà con il voto l’azione legislativa e politica di questo, è data niente altro che dal numero di votanti che, per fedeltà al partito e per convinzione personale, si impegnano a sostenere il programma governativo.
Questo è il primo significato della espressione “maggioranza politica” che esprime la fiducia, ed il compito del Presidente della Repubblica è proprio quello di individuare le combinazioni di partiti la sommatoria dei cui voti supera di almeno uno la maggioranza assoluta dei componenti, purché omogenee e compatibili politicamente tra loro.
Il ruolo del P.d.R., ovviamente, non è puramente aritmetico. Attraverso le consultazioni con i leader e l’esame delle posizioni politiche e dei programmi di ciascun partito, il Presidente esplora la esistenza di potenziali maggioranze numeriche purché esse abbiano una compatibilità politica e i singoli partiti che la compongono manifestino la volontà di sostenersi vicendevolmente in Parlamento, sia pure nella inevitabile diversità dialettica degli appartenenti alla medesima coalizione. Al Presidente spetta comunque la decisione finale, basata anche sul giudizio e la valutazione che egli dà della persona indicata dalla maggioranza politica individuata. Non è un semplice notaio o contabile di voti, ma resta il fatto che la figura del Presidente incaricato emerge dalla maggioranza e non viceversa.
Ciò che più rileva in questo meccanismo, che con varianti più o meno migliorative, è adottato in tutti i paesi occidentali, è che il Governo non è espressione della volontà del Presidente, ma dei partiti, e, ancora più importante, che il Presidente del Consiglio promana dalla stessa volontà dei partiti, i quali dichiarano di riporre la loro fiducia in una persona da loro indicata, ritenuta adatta a svolgere quel ruolo di direzione della politica generale del Governo, di cui assume la responsabilità, di mantenimento dell'unità di indirizzo politico ed amministrativo, di promozione e coordinamento dell'attività dei Ministri, così’ come prevede l’art. 95 della Costituzione. Tutti carismi che non necessariamente sono legati da una corrispondenza biunivoca necessaria con un particolare ruolo che rivesta o abbia rivestito, né con capacità tecniche, economiche, finanziarie o diplomatiche, delle quali, per altro, nessuno ha il monopolio.
Il sistema ha registrato, nella storia repubblicana, numerose situazioni in cui, eccezionalmente, la persona incaricata di guidare il Governo è stata scelta, o suggerita autorevolmente, dal Presidente della Repubblica e quindi accettata dai partiti della maggioranza. Si sono avute così le evenienze conosciute come “governo del Presidente”, “governo di unità nazionale” etc. caratterizzate, sostanzialmente, da una traslazione della fiducia espressa dal Parlamento, cioè dalla sua maggioranza politica, dal Governo al Presidente del Consiglio (o forse sarebbe meglio dire al Presidente della Repubblica) come organo monocratico, il quale assume così su di sé l’intera responsabilità politica della scelta e dell’indirizzo generale del Governo.
La costituzionalità di queste variazioni sul tema è comunemente accettata, ma sempre sul presupposto della presenza di situazioni emergenziali o di gravità notevole, che imponessero comunque di dare al Paese una guida governativa. Oppure sul presupposto di una assoluta inconciliabilità politica tra i partiti e i parlamentari eletti, che impedissero fin dalle fondamenta la aggregazione, non ostante l’esistenza di una maggioranza numerica, per assicurare la maggioranza dei voti necessari a governare. Questo, sempre, nelle more di chiarimenti politici tra i partiti che conducesse all’unico sbocco accettabile in una democrazia rappresentativa, cioè: le libere elezioni che determinino una nuova geografia politica, e sempre che – secondo la dottrina maggioritaria – non si attribuisca al Presidente della Repubblica la responsabilità politica delle successive azioni di governo.
La valutazione dell’eccezionalità della situazione che conduce necessariamente ad un simile Governo, sino a tempi recenti formulata sulla scorta di parametri assai rigidi, ha subito una modificazione profonda negli ultimi tempi, ad iniziare dalla nomina del Governo Monti (Napolitano P.d.R.).
Prescindiamo dai motivi politici che determinarono questa scelta, ma analizziamo solo le conseguenze culturali e istituzionali.
In primo luogo, si osserva che l’inversione del meccanismo costituzionale è palese. Si sceglie prima il Presidente del Consiglio, in base a qualità e requisiti personali, e dopo si chiede (melius: si impone autorevolmente) ai partiti di fornire il proprio consenso, soprattutto attraverso una autorevolissima moral suation da parte del Presidente della Repubblica. Non è più il Parlamento che sceglie il Presidente del Consiglio, ma il Presidente della Repubblica che sceglie il Presidente del Consiglio, ed entrambi, in accordo, scelgono di fatto la maggioranza che sosterrà il Governo.
E’ appena il caso di sottolineare che il ricorso a questo meccanismo in funzione non tanto di situazioni emergenziali, quanto della valutazione delle capacità intrinseche del Presidente del Consiglio incaricato, ripetutosi due volte a distanza di pochi anni, ha determinato una così detta “consuetudine costituzionale”, istituto che è contemplato come legittimo mutamento della costituzione materiale.
Non è qui in discussione la costituzionalità di questa operazione, ma il suo significato nel profondo della coscienza e consapevolezza istituzionale e costituzionale del popolo.
In linea generale, critici nei confronti di questa inversione costituzionale sono stati alcuni partiti e non pochi studiosi, ma si sono registrate nel Paese e nella opinione pubblica sia una condivisione, sulla scorta di paure scatenate dalla pandemia, dalla crisi energetica, dalla guerra, per fronteggiare le quali si accettava, anzi si invocava, il deus ex machina della tragedia greca, e sia una accettazione indifferente.
Anzi, l’esaltazione delle persone di Monti prima e Draghi poi, e delle loro capacità tecniche e autorevolezza internazionali (che qui non si mettono in dubbio, ma che non hanno alcuna rilevanza ai fini del ragionamento che si sta svolgendo), ha determinato nella opinione pubblica l’accettazione generalizzata di un principio non nuovo, vale a dire la necessità di una forte personalità alla guida del Paese, che utilizzi i partiti e il parlamento come strumenti per la realizzazione del suo programma nel quadro dei compiti affidatigli dal Presidente della Repubblica, non che sia egli al servizio del Parlamento e quindi dei cittadini.
Un uomo forte, unico al comando, cui dare sempre ragione, provvidenzialmente emerso dalla Storia.
Un tale sentimento nella opinione pubblica è corroborato e nutrito anche dal venir meno della fiducia dei cittadini nella politica e nei politici, alimentato da una sistematica idiosincrasia per la autorevolezza del ceto politico, a torto o a ragione diffusasi nella maggioranza degli elettori e alimentata per scopi elettorali da alcune forze politiche.
I dati sull’astensionismo sono qui a dimostrare l’assunto.
Riemerge, a livello di coscienza collettiva, l’antico vizio di credere che la democrazia possa essere declinata anche nella forma autoritaria, nella quale cioè le decisioni non siano manifestazione della sovranità popolare scaturenti dal dialogo tra diversi, ma dalla volontà illuminata di un leader, e i passaggi operativi, cioè amministrativi, meglio avvengano sotto l’egida di una sola persona, o ufficio, che tutto conosce, tutto regola e tutto controlla.
Il popolo e la sua sovranità non sono che un accidente, un intralcio alle magnifiche sorti e progressive di un Governo che spesso si definisce tecnico, ma che in realtà è più politico dei Governi usuali, perché riunisce in sé l’interezza della politica.
Si tratta, in sostanza, di una ulteriore evoluzione del sistema sopra tratteggiato e riassunto nella formula, per altro imprecisa e insufficiente, del “governo del Presidente”.
La prassi costituzionale si è spinta oltre esso, sganciando il ricorso a quella formula dalla sussistenza di una situazione eccezionale, per legarla invece ad un più semplice giudizio di capacità e idoneità del prescelto ad affrontare e risolvere problematiche interne ed internazionali. Che fosse assente una qualsiasi situazione eccezionale propriamente detta, è evidente nel fatto che al momento della nomina di Draghi, 3 febbraio 2021, era anche cessata la situazione di emergenza tecnicamente intesa scaturente dalla pandemia e non ancora iniziata la guerra - l’invasione è del 22 febbraio 2022 - e dell’approvvigionamento delle fonti energetiche o della penuria del grano.
In altri termini, in una ottica di psicologia sociale, è avvenuto nella opinione pubblica una montante sfiducia nei confronti dei partiti e un giudizio fortemente negativo nei confronti delle capacità anche personali dei loro esponenti e leader, tale da far accettare il ricorso all’uomo provvidenziale in grado di controllare e risolvere qualsiasi problema. Sfiducia che, unita alla paura, spesso alimentata ad arte, della ingestibilità e ingovernabilità di una situazione economica e politica percepita difficile, ha determinato un cocktail di depressione, paura, rassegnazione, percezione di inutilità del proprio ruolo di Popolo sovrano e, infine, l’abbandonarsi più che a una ragionevole speranza, ad una mistica fede nel prescelto.
Si vuole proprio recuperare il modello platonico del Governo dei “filosofi”, cioè dei “migliori” e non del popolo, cui le vicende degli ultimi governi ci stanno assuefacendo? Come dice Popper, non è che Platone sia esattamente un campione di democrazia.
Rinviamo ad altra sede, ad altro momento e soprattutto ad altri costituzionalisti più autorevoli, il giudizio sulla conformità di questa riforma sostanziale ai principi generali e immodificabili propri della Costituzione, ciò che preme qui sottolineare è il ritorno nella coscienza collettiva della tentazione a rifiutare, sostanzialmente, il modello di costituzione occidentale che affonda le sue radici nella elaborazione ateniese, illuminista e quindi, per noi, risorgimentale e consacrata nella Costituzione post bellica, e a perseguire, invece, un modello di democrazia autoritaria.
In sostanza, ciò che ci preoccupa è il cambio di paradigma culturale, strisciante e inavvertito dai più, ma inesorabile, pare, nella sua avanzata, verso quella cultura istituzionale che noi chiamiamo delle tre P: Prescrivere, Proibire, Punire.
La cultura, cioè, nella quale il razional costruttivismo pretende di imporre alla realtà un modello astratto, calpestando così non solo gli aneliti, le aspirazioni, in una parola le libertà, delle comunità locali e delle persone, ma anche accentrando sempre più il potere decisionale in una sola istanza (personale o istituzionale che sia). Una cultura che sposta l’attenzione e la prevalenza dalle persone alle istituzioni, cioè allo Stato e, in ottica internazionale, dalle comunità locali a una vagheggiata unica “comunità umana”. Esiti peggiori della così detta globalizzazione culturale, cui Baumann oppone la “glocalizzazione” attenta a conciliare, subordinandoli, i tratti culturali globali a quelli locali.
Del resto, l’opinione pubblica italiana non è sola in questo rinnovato e sciagurato cammino.
Innumerevoli sono i Paesi che si inorgogliscono di avere adottato un modello di democrazia autoritaria (ossimoro inquietante e terrorizzante) e tra questi, quelli europei non son pochi. Ciò che ingigantisce le preoccupazioni nei confronti di questa evoluzione psicologica e culturale, divenuta uno degli elementi costitutivi della cultura di molte Nazioni, è l’ammirazione strisciante che, fortunatamente, solo una piccola parte della opinione pubblica ha nei confronti di “democratici autoritari” come i leader dei paesi europei dell’est e della Turchia, alla luce di un ragionamento perverso e devastante, per cui si può perdonare qualunque cosa (il controllo della stampa ad es. o un regime poliziesco o l’esautorazione del Parlamento), purché il Paese funzioni bene nel resto
Le preoccupazioni aumentano parossisticamente se volgiamo l’attenzione alle teorizzazioni globaliste sopra accennate.
L’invocazione ad un “governo mondiale” che eserciti controlli e irroghi sanzioni agli Stati, soprattutto con il pretesto accattivante e demagogico della tutela dell’ambiente o della lotta alla povertà, è l’apoteosi dell’autoritarismo culturale. In nome della efficacia ed efficienza del governare, si obliterano o si deprimono gli strumenti propri della democrazia, soprattutto spostando i livelli decisionali sempre più verso soggetti od organi tendenzialmente onnipotenti, verticalmente lontani dalle persone o dai loro legittimi rappresentanti. Ciò avviene, in sede nazionale, da parte del governo “democratico autoritario”, sottraendo al Parlamento, anche de facto, i suoi poteri di indirizzo, legislativo e di controllo; in ambito internazionale avviene privando gli Stati della loro funzione fondamentale che consiste nell’esercizio della sovranità nel confronto con gli altri Stati per conto del popolo.
Non ci si stancherà mai di ripetere, infatti, che la reazione allo strapotere e alla invadenza delle organizzazioni multilaterali, bollata demagogicamente oltre che ignorantemente, come “sovranismo” e per ciò disprezzata, non significa il rifiuto di una dimensione multilaterale alle relazioni e alle problematiche tra gli Stati, anche attraverso nuovi attori internazionali dotati di soggettività giuridica e sovranità propria, purché limitata, bensì esclusivamente la difesa della sovranità non dello Stato, ma del popolo cui esclusivamente appartiene, come recita l’articolo 1 della nostra Costituzione.
La teorizzazione della democrazia realizzata all’interno di un sistema globale capitalista neoliberista spinto (la democrazia del consumatore che si esprime attraverso l’acquisto guidato dalla invadenza dei social e degli algoritmi) affascina oggi molti studiosi, rassegnati alla invadenza e al potere del controllo e della connessione dei dati, e riveste una forte attrattiva nei confronti della opinione pubblica.
L’inversione del meccanismo costituzionale di cui si è fin qui discorso, ma soprattutto il suo presupposto, cioè la sua condivisione tra l’opinione pubblica, ha costituito il terreno di coltura di un cambio di paradigma culturale che può rendere il nostro popolo inerme e senza strumenti, soprattutto culturali e quindi istituzionali, per opporsi alle derive autoritarie in corso.